‘Brasile’, una prospettiva a
lungo termine, un viaggio che avrei programmato appena terminata l’università.
Era da un po’ che me lo ripetevo.
Avevo iniziato a riempire la mia
testa di immagini, fotografie di volti, luoghi, situazioni che non avevo visto
né vissuto. Ornella, Adriano, Carlo, Sara, erano loro i più vicini a me che già
avevano visto e vissuto parte del Brasile. Facevo tante domande, stavo attenta
ai colori, agli odori, a tutti i dettagli che mi venivano descritti per rendere
quelle riproduzioni in testa il più possibili fedeli e reali..eppure, l’unica
cosa che capivo era che i racconti non mi bastavano.
Allora chiedevo loro di cercare
di trovare parole più efficaci, provare ancora, ancora una volta…
C’era soprattutto quella parola curiosa
‘saudade’ … “una sensazione impossibile da far immaginare”, “solo chi l’ha
vissuta in prima persona può capire”; “non è uguale alla ‘nostalgia’, non
esiste una parola italiana per tradurla”… quante volte ho sentito queste
frasi..
Voglio iniziare proprio da qui,
iniziare a raccontare partendo da quello che sento addosso a me, dentro di me
esattamente in questo momento. Credo di poter usare quella parola curiosa
adesso..sì, credo proprio sia ‘saudade’ quella che sento.
“è una mancanza che è anche pienezza”
Ricordo bene chi mi ha scritto
queste parole, ricordo che ero distesa sull’amaca blu all’entrata della casa UNIVASF
a Petrolina e ricordo che in quel momento ho pensato non si potessero
trovare parole più azzeccate.
Scriverò allora di cos’è piena la
mia “saudade”: visi, mani, sensazioni, incontri, competenze, condivisioni,
tramonti, parole che stimolano, provocano, lasciano delle ‘tacche’, musica di
strada, rocce rosse, cascate, contraddizioni e poi ancora di più..
Lo scriverò attraverso alcune
macro-aree, delle parole chiave che mi aiuteranno a ripercorrere, a focalizzare
l’attenzione e a ordinare le emozioni.
Iniziamo…
L’EQUIPE: Lucia, Isidora e Nicola, sono loro i miei compagni di
squadra.
Da subito sono state messe le carte in tavola, abbiamo discusso e ci
siamo confrontati più volte sul significato di lavorare in equipe e su cosa,
per ognuno di noi, stava alla base dell’equilibrio di una squadra. Equilibrio non inteso come staticità, ma come
stabilità, resistenza. Le tematiche affrontate durante le ‘riunioni’di
formazione coordinate da Nicola, hanno
portato non solo ad uno scambio di opinioni e pensieri, ma anche ad un
conoscersi più a fondo (pregiudizio, dialogo interculturale, capacità di
distinguere soggettivo da oggettivo..). Abbiamo iniziato a scoprirci poco per
volta per le nostre affinità e per le nostre differenze. Noi quattro non ci
siamo scelti, non ci siamo cercati ma, non per caso, ci siamo trovati vicini,
quasi intrecciati.
L’APAE (l’associazione che accoglie i ‘ragazzi speciali’ nella
quale ho svolto il mio progetto di tirocinio): quel cancelletto blu si poteva
aprire anche dall’esterno, tiravo quella levetta cinque giorni a settimana
eppure non mi sono mai abituata a quella sensazione nel ‘varcare la soglia’. Sì
perché ogni volta che entravo lì dentro mi sentivo investita da una scarica di
energia. Quell’energia speciale che proveniva dai ragazzi che pian piano ho
imparato a chiamare per nome, dal loro entusiasmo per ogni nuova proposta, dalla
loro spontaneità nel dimostrare rabbia o affetto, dal loro correrti incontro,
dalle loro grida di gioia, dalle loro canzoni cantate al microfono, dalle loro
‘mosse di bacino’ nel ballare le canzoni più ritmate.
C’è Ricardo e il suo
essere determinato a voler imparare la traduzione italiana di alcune parole,
c’è Tom e la sua capacità di guadagnarsi un abbraccio dopo un dispetto, c’è
Bianca e la sua voglia di farsi capire, di comunicare con gli occhi e i
sorrisi, c’è Elias, il suo volersi sedere sulle mie gambe e il suo modo di
guardarmi incuriosito..nella mia “saudade” ci sono loro e molti molti altri.
Ogni giorno si facevano scoprire e conoscere per le loro caratteristiche e
personalità. Ero continuamente in contatto con il loro ‘non avere filtri’, il
loro lasciarsi andare ad una risata contagiosa o ad un pianto interminabile, ed
è proprio questa loro peculiarità che li rendeva simili e allo stesso tempo
unici nel loro genere.
Ero
anch’io realmente in grado di farmi conoscere ‘senza filtri’ e al tempo stesso
di conoscere ‘senza filtri’?
Il DECENTRAMENTO: Il trovarsi nella situazione di ‘straniera’ mi ha
fatto riflettere molto sulla capacità di uscire dal mio mondo, dal mio modo di
pensare, sulla capacità di ‘spostarmi da me’. Come equipe abbiamo lavorato
molto sull'importanza di esprimersi omettendo qualsiasi giudizio; abbiamo
prestato molta attenzione ad identificare le nostre interpretazioni e pareri,
legati quindi alla nostra cultura ed esperienza, cercando di tenerli separati
dalle descrizioni di ciò che vedevamo o ascoltavamo.
La COMUNICAZIONE e il DIALOGO:
due parole fulcro di questa esperienza.
Innervosita,
demoralizzata, confusa, condizioni che ricordo bene. Sensazioni iniziali
collegate al non conoscere il portoghese, al dovermi preparare in anticipo le
domande da fare, le perplessità da chiarire o semplicemente delle proposte che
mi sarebbe piaciuto condividere.
E poi il lasciarsi trasportare fuori dalla
dimensione della parola come mezzo privilegiato. Sentirsi stimolata
continuamente a cercare diversi e sempre nuovi mezzi per comunicare, ritrovarsi
ad imitare degli animali o a disegnare degli oggetti, a marcare le espressioni
del viso e ad osservare tutto questo anche in chi mi stava attorno.
Ero partita da casa con l’idea di
proporre un laboratorio creativo con il materiale riciclato all’interno dell’APAE,
ma effettivamente era un laboratorio basato su ipotesi, idee di ciò che avrei
potuto trovare. Non conoscevo i ragazzi con i quali avrei collaborato, né il
materiale che avrei avuto a disposizione, né i laboratori, gli argomenti già
affrontati i mesi precedenti eppure giorno dopo giorno ho visto i pezzi del
puzzle incastrarsi tra di loro. Questo sicuramente grazie alle occasioni di
dialogo, scambio, riflessione e condivisione con operatori, educatori e
professori del mio ente.
La CONDIVISIONE dei miei obiettivi personali all’inizio del percorso è
stata di fondamentale importanza. Solo così ho potuto dirigere la mia
attenzione ad obiettivi concreti e stabiliti tenendo in considerazione le necessità
ed aspirazioni tanto mie quanto dell’Ente che mi ha accolta. Indispensabile è
stato il sentire che potevo chiedere, fare domande, esprimere dubbi in
qualsiasi momento, nelle riunioni d’equipe ogni venerdì, ma anche in quei
‘momenti liberi’, brevi, non formali ma preziosi.
Obiettivi formativi:
(SAPERE)
- avere una
visione più completa e congruente della struttura nella quale presterò servizio
(in termini di organizzazione interna) e del ruolo che rivestirò all’interno
della essa, ma anche dell’ambito di associazioni e del contesto in cui è
inserita
- conoscere
e condividere usi, costumi, tradizioni e tutto ciò che incontrerò di diverso da
me a livello culturale, legislativo, religioso che caratterizza l’etnia propria
delle persone con cui sarò a contatto
(SAPER FARE)
- individuare
le caratteristiche principali delle modalità di intervento svolte all’interno
della struttura APAE e la specificità di ognuna di esse correlata alla
problematica cui è correlata
- imparare a
capire/ interpretare le particolarità dei gruppi e dei singoli con i quali
collaborerò e interagirò
- condividere con l’equipe locale obiettivi e pianificazione di attività e
proporre un laboratorio nuovo, magari vicino alle mie esperienze ed attitudini
- avere una
panoramica chiara e dettagliata di ciò che sperimento ed approfondisco, con la
consapevolezza di poterlo sfruttare poi, in modo efficace e veloce
(SAPER
ESSERE)
- mantenere
e potenziare un atteggiamento di apertura e curiosità verso le diversità che
incontrerò giornalmente, nonché uno spirito propositivo e teso a mettere in
gioco le mie caratteristiche personali
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Equipe APAE |
Durante i tre mesi di esperienza, all'interno dell'APAE ho proposto e sviluppato:
- un laboratorio creativo attraverso l’uso di svariati materiali di
riciclo (bottiglie e bicchieri di plastica, scatole di cartone, contenitori in
tetrapak..) e svariate tecniche (collage, assemblaggio, creazione di nuovi
oggetti, pittura..). Realizzato in 8 differenti classi;
- laboratori giornalieri differenziati
con ogni classe: costruzione di diversi animali (tartarughe, pipistrelli,
farfalle, ragni, serpenti), barchette, case, autobus, automobili e fiori - Realizzazione di ambienti naturali in miniatura (foresta e lago) su cui abbiamo incollato
diversi animali realizzati con i tappi delle bottiglie - Sviluppo del tema dell’acqua come risorsa naturale.
Approfondimento delle proprietà dell’acqua, i passaggi di stato e il ciclo
dell’acqua nel pianeta - Sviluppo del tema della dimora dell’uomo partendo dalla
favola de ‘i tre porcellini’ e realizzando infine delle casette con diversi
materiali, forme e colori - Sviluppo del tema dell’habitat naturale delle specie animali
partendo dalla favola di ‘Bambi’ e realizzando un’attività che prevedeva di
collocare nel proprio ambiente le figurine di ogni animale.
Ho partecipato ad un progetto realizzato dalla logopedista e dalla terapeuta
occupazionale della struttura in tre diverse classi di APAE finalizzato alla scoperta, l’uso e il potenziamento della percezione
sensoriale:
- tatto di piedi e mani attraverso percorsi sensoriali con
diversi materiali da riconoscere
- udito attraverso l’utilizzo di strumenti musicali e di toni
e timbri di voce differenti
- vista attraverso la visualizzazione di luci e ombre e un
laboratorio incentrato sui colori
- olfatto e gusto attraverso l’utilizzo di diversi cibi più o meno noti da
indovinare attraverso il loro odore e sapore
FLESSIBILITÁ: una delle parole che fin da subito mi sono posta come
metodo, o forse come obiettivo.
Essere flessibili all’interno della propria
comodità, della propria ‘comfort zone’ dove le strade secondarie da percorrere
per affrontare gli imprevisti sono molte volte già testate come sicure ed
efficaci, è ‘leggermente’ differente dalla flessibilità che intendevo raggiungere. Una flessibilità che era riprogrammazione ma
allo stesso tempo anche creazione di quelle strade secondarie. Sentivo che il
contesto nel quale mi stavo inserendo mi richiedeva di stare continuamente con
le antenne alzate e i talloni sollevati da terra, pronta per essere reattiva,
come nella posizione di ricezione a pallavolo. Pronta all’imprevisto, al
cambiamento di qualcosa, come quando una battuta flottante cambia direzione
all’ultimo secondo. Capitava di dover modificare un laboratorio o una lezione
in base al numero degli alunni, al materiale che si pensava di trovare e invece
mancava. Capitava di ritrovarsi ad appuntamenti programmati e poi posticipati o
addirittura cancellati senza preavviso.
Avremmo potuto tralasciare
qualcosa, saltare qualche programma. Certo, avremmo potuto, ma abbiamo scelto
di non farlo. Sapevamo di avere tre mesi, sapevamo ci fosse una ‘scadenza’,
sapevamo che il tempo era da investire nel modo migliore per accogliere più
opportunità possibili. Sapevamo inoltre che avevamo delle responsabilità come
equipe e come singoli. Il portare a termine attività e progetti non era solo
qualcosa che avrebbe gratificato e appagato noi stessi, era anche importante
per chi sarebbe stato al nostro posto dopo di noi, o per chi era davanti a noi
in quel momento.
Sicuramente i due contesti che mi
hanno richiesto di incrementare la flessibilità del mio bagaglio iniziale sono
stati l’APAE nella progettazione del mio laboratorio personale e la UPE
(Università del Pernambuco) a Petrolina.
Qui ho avuto l’opportunità di
mettermi alla prova nel ruolo di ‘professoressa’ di un corso base di lingua e
cultura italiana. Professoressa lo ero di fatto senza le virgolette, eppure
voglio scriverlo così, non per sminuirne l’importanza, ma solo per renderlo più
curioso e meno comune, con qualcosa da scoprire. Questo scoprire non è solo per
voi che state leggendo, ma lo è stato e lo è tuttora anche per me.
Ancora prima di iniziare, quando
Nicola ci ha parlato in modo più dettagliato di questo corso, quando la sola
immagine di me davanti ad una classe di alunni mi faceva sorridere, già allora
mi sentivo attirata e stimolata da questo nuovo territorio. Ho sempre pensato
che l’essere professoressa non mi appartenesse. Non avrei voluto insegnare la
didattica, le materie scolastiche in modo scolastico, non mi sarebbe piaciuto
sedermi dietro ad una cattedra, seguire un libro che mi indicasse cosa spiegare
e farmi dare del ‘lei’. Ecco, non c’è stato nulla di tutto ciò durante queste
lezioni. Per gli studenti della mia classe io ero ‘a professora Giulia’, c’era
il mio nome accanto a quel ruolo, c’era il mio modo di essere professoressa.
Nonostante l’inesperienza in questo campo mi sono quasi stupita di essermi
trovata da subito a mio agio nel prendere iniziative che potessero attirare l’attenzione
e stimolare l’apprendimento di una nuova lingua.
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Lezione e serata finale del corso di Lingua e Cultura italiana alla Università del Pernambuco |
Ho approfittato e approfondito la
CAPACITÁ DI IMMEDESIMARSI che già
sentivo di possedere. Cercavo di capire le abitudini del gruppo di studenti
durante le lezioni. Provavo attraverso delle semplici domande a percepire come
sarebbe piaciuto che impostassi le due ore a settimana che passavamo assieme.
Mi
sono chiesta più volte “Giulia, come ti piacerebbe imparare una nuova lingua?”.
Attraverso le mie e le loro risposte e grazie ai consigli di Nicola che già da
parecchio tempo ha a che fare con questi corsi di Italiano nelle due università,
mi sono addentrata in questa avventura. La chiave che ho trovato? Il variare
metodologie di approccio e comunicazione, l’alternare momenti di spiegazione
specifica inerente all’argomento grammaticale a momenti più coinvolgenti anche
proprio dal punto di vista fisico (il balletto di una filastrocca per i giorni
della settimana o l’alzarsi in piedi per cantare una canzone italiana).
L’ascoltare le loro proposte e l’essere autoironica credo mi abbiano poi
aiutato molto nel cercare di farli sentire miei complici, più che miei
studenti. E, alla fine del corso, quella frase: “Giulia, você era uma
professora um pouco estranha”. Sì, ho capito in quel momento di essere stata la
‘professoressa’ con le virgolette di cui ho parlato.
ASCOLTARE: è spesso un verbo che pensiamo in relazione a ciò che è
diverso da noi, a ciò che sta fuori, all’esterno. “l’essere aperti e
disponibili ad accogliere esperienze altrui, cogliere e rispettare i tempi
dell’altro” è questa la definizione che ne avevo dato all’inizio di questi tre
mesi. Concordo ancora con tutto ciò che avevo scritto eppure..c’è una
dimensione dell’ascoltare che ho curato qui in modo particolare. L’ascoltarsi.
In un’esperienza formativa come questa ci si
trova immersi in un mare di novità, curiosità, occasioni extra-ordinarie da
cogliere al volo, moltissime persone da scoprire ogni giorno. C’è una linea
sottile tra l’essere immersi e l’essere sommersi. Per me questa linea sottile
era formata dai momenti che riuscivo a trovare per me durante la giornata e dai
momenti che io, Lucia, Isidora e Nicola riservavamo per noi. È stato davvero
fondamentale per me trovare del tempo per ascoltarmi, ascoltare le mie sensazioni,
le mie paure, le capacità che sentivo di mettere in gioco e quelle su cui
dovevo ancora lavorare molto. Quel tempo che ci dedicavamo aiutava a
‘sedimentare’, a cercare delle parole, a chiamare per nome ciò che sentivamo, a
non lasciar andare, a non lasciarci sommergere.
La ‘saudade’ che sento contiene
tutto questo..e poi di più.
E adesso? Ora che sono tornata a
casa, ora che sono passati questi tre mesi?
L’atterraggio in Italia più che
un ritorno l’ho sentito come una partenza. C’è ancora tantissimo lavoro da fare
su di me a livello professionale e personale. C’è ancora così tanta strada. Allora
allaccio bene le scarpe e metto in spalla il mio zaino. Non ho dimenticato
nulla, ma lo sento così leggero perché la pienezza di cui ho parlato, la
pienezza che il ‘Brasile’ mi ha regalato, non è una pienezza che appesantisce,
ma che stimola la mente e arricchisce il cuore.
Giulia
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